La notizia che New York obbliga gli inserzionisti a dichiarare l’uso di avatar generati dall’intelligenza artificiale (ID: 7) è molto più di una semplice regolamentazione. È un campanello d’allarme, un segnale che la linea tra realtà e simulazione si sta assottigliando a una velocità vertiginosa. Per anni, abbiamo discusso i pericoli delle ‘deepfake’ nel contesto politico, ma questa legge ci costringe a confrontarci con una minaccia più subdola e pervasiva: l’erosione della fiducia nel quotidiano, nel volto che sorride da un cartellone pubblicitario, nella voce che promette l’affare del secolo.
La trasparenza è cruciale, certo. Ma basta un’etichetta per proteggerci dalla manipolazione? La mia preoccupazione è che la proliferazione di avatar generati dall’IA creerà un ambiente di costante sospetto. Ogni volto attraente, ogni testimonianza impeccabile, sarà accolta con un cinico ‘Sarà vero? O è un prodotto di un algoritmo?’. Questo scetticismo generalizzato potrebbe minare la fiducia non solo nella pubblicità, ma anche nelle istituzioni e nelle relazioni interpersonali.
E poi c’è la questione del consenso. Chi possiede il volto dell’avatar? Quali sono i diritti dell’individuo (reale o immaginario) che viene replicato e manipolato per fini commerciali? Il diritto all’immagine e la privacy diventano concetti fluidi e nebulosi. Dobbiamo chiederci: stiamo creando un futuro in cui la realtà è negoziabile, in cui la verità è una costruzione algoritmica?
Infine, riflettiamo sull’impatto psicologico. La continua esposizione a volti e storie artificiali può alterare la nostra percezione della bellezza, del successo, della normalità. Stiamo creando standard irrealistici e irraggiungibili, alimentando l’ansia e l’insoddisfazione. L’avvento degli avatar dell’IA non è solo una questione tecnologica, ma una sfida etica e sociale che richiede una riflessione profonda e una risposta normativa adeguata. Altrimenti, rischiamo di annegare in un mare di simulacri, perdendo di vista la nostra umanità.

