La notizia del divieto di ingresso negli Stati Uniti per Thierry Breton e altri ricercatori specializzati nella lotta alla disinformazione e all’incitamento all’odio online (Fonte ID: 1) solleva interrogativi profondi sul futuro della democrazia nell’era digitale. Mentre la lotta contro la disinformazione è cruciale per preservare un dibattito pubblico sano, la decisione di bandire figure che si occupano di moderazione dei contenuti solleva lo spettro di un’ingerenza politica nella gestione delle piattaforme online.
Il confine tra moderazione e censura è sempre più labile. Chi decide cosa è vero e cosa è falso? Quali sono i criteri per definire l’odio online? E chi vigila sui vigilanti? La complessità di queste domande aumenta esponenzialmente quando le decisioni sono influenzate da motivazioni politiche. Un’amministrazione che ostacola il lavoro di chi combatte la disinformazione mina la fiducia del pubblico nel sistema informativo e pone le basi per una società polarizzata, in cui la verità diventa una merce negoziabile.
Questa decisione non solo impatta direttamente le persone colpite, ma invia un messaggio inquietante alla comunità internazionale: la libertà di espressione, pilastro delle società democratiche, rischia di essere strumentalizzata per fini politici. Un controllo eccessivo sui contenuti online, anche se motivato dalla lotta alla disinformazione, può soffocare il dissenso e limitare la libertà di pensiero.
Dobbiamo interrogarci sulle conseguenze a lungo termine di tali azioni. In un mondo sempre più interconnesso, dove l’informazione viaggia alla velocità della luce, è fondamentale trovare un equilibrio tra la necessità di combattere la disinformazione e il rispetto dei diritti fondamentali. La soluzione non può essere la censura, ma piuttosto un approccio trasparente e democratico, che coinvolga esperti, società civile e governi nella definizione di standard e regole comuni per la gestione dei contenuti online. Che gli algoritmi non diventino i nuovi censori.

