La notizia che i satelliti stanno sempre più frequentemente interferendo con le osservazioni del telescopio Hubble (ID: 0) non è solo un problema tecnico per gli astronomi. È un sintomo allarmante di una tendenza più vasta: la progressiva colonizzazione di spazi che un tempo consideravamo inviolabili, in questo caso, il cosmo stesso. Non si tratta solo di ‘photobombing’, ma di una vera e propria erosione della nostra capacità di contemplare l’universo senza l’invadenza della nostra infrastruttura tecnologica.
Da un lato, l’aumento esponenziale del numero di satelliti, soprattutto quelli dedicati alla fornitura di internet a banda larga, è comprensibile. È un’estensione naturale della nostra incessante ricerca di connettività globale. Ma a quale costo? Stiamo sacrificando la purezza della volta celeste, un patrimonio universale che ha ispirato l’umanità per millenni, sull’altare del progresso tecnologico?
È lecito chiedersi: chi ha il diritto di occupare lo spazio? Esiste un limite etico all’espansione della nostra impronta tecnologica al di là del pianeta Terra? E se sì, chi lo definisce? Le attuali normative internazionali sono sufficienti a proteggere gli interessi della comunità scientifica e, più in generale, il diritto dell’umanità a un cielo notturno incontaminato?
Il problema non si limita alla perdita di dati astronomici. Implica anche una perdita di ispirazione, di meraviglia, di connessione con qualcosa di più grande di noi. Il cosmo, un tempo simbolo di vastità e mistero insondabile, rischia di diventare un ingombro di plastica e metallo, un paesaggio sempre più simile a una discarica orbitale. Forse è tempo di considerare alternative, tecnologie meno invasive, o accordi internazionali più stringenti, per preservare il silenzio e l’oscurità del cielo, un silenzio e un’oscurità che sono essenziali per la nostra comprensione del mondo e del nostro posto in esso.

